
Sempre più persone desiderano o progettano di lasciare Milano e costruirsi altrove una dimensione di vita e lavoro a misura umana. Questa tendenza alla fuga dalla città, che all’inizio della pandemia sembrava la reazione fisiologica alle restrizioni del lockdown, si è invece consolidata anche dopo il ritorno alla quasi-normalità delle riaperture, della ripresa della vita sociale, del ritorno ordinario in presenza in ufficio.
Per alcune persone, il “sogno” di una vita più lenta, profonda, autentica si è concretizzato a seguito di un “incubo”, la perdita del lavoro. D’improvviso, il futuro smette di essere scontato. Non è più inevitabile che le cose vadano proprio come le avevamo previste per anni, magari per decenni di ordinaria vita metropolitana.
Per altre persone si è invece trattato di una scelta non condizionata dalla perdita di un impiego, ma dalla consapevolezza che gli obiettivi di vita che val la pena perseguire non coincidono affatto con gli obiettivi imposti dalla vecchia “normalità”. Si assume quindi la determinazione a porre come priorità i propri obiettivi e subordinare a questi il lavoro, in una modalità funzionale. Ed è questa tendenza che sembra segnalare il fenomeno della “great resignation” che si sta ormai da tempo registrando negli Stati Uniti ed in Europa, Italia compresa.
In questi casi, si tratta di rifiutare una vita personale subordinata alla vita lavorativa – spesso identificata con un luogo, una durata temporale ed una ripetizione ciclica – che impone priorità e ritmi e vi costringe dentro tutti gli altri aspetti personali – gli spazi, il tempo, le relazioni. Una vita lavorativa che non tollera gli elementi accidentali della vita, sebbene questi nella vita privata accadono ed abbiano il potere di stravolgerla. Nella dimensione del lavoro prima-di-tutto l’accidente non può starci e se accade è un problema.
Non può starci un accidente come l’incontro con un cane, ad esempio, e il desiderio reciproco di una vita comune, se stai in ufficio dieci ore di fila. Non può starci l’accidente di un figlio, se sei una donna che ambisce a far carriera e l’unico modo per far carriera è presidiare fisicamente le relazioni intra-aziendali o intra-professionali che possono tracciarne il destino. Non può starci nemmeno vivere lontano dalla città, se almeno due/tre volte la settimana devi lavorare in sede invece che in smartworking, dal luogo in cui ti pare e nel tempo che ti è più congeniale.
Il digitale già da tempo, e da molto prima della pandemia, ha reso evidente a molti quanto fosse irrazionale la transumanza quotidiana casa-ufficio, quanto coercitiva una relazione di lavoro basata sulla gerarchia, quanto inefficienteìi fossero una produttività misurata sul numero delle ore passate in ufficio ed una valutazione delle skills basata sulla capacità di fare pubbliche relazioni alla macchinetta del caffé. Eppure è solo con la pandemia che di questo modo stupido di lavorare molte persone hanno deciso di non volerne sapere più.
Gli studiosi ci diranno quanto esteso e sistemico questo fenomeno sia. Ci limitiano a ragionare sulla base delle storie che continuiamo ad ascoltare in maniera costante e frequente da quando abbiamo aperto questo blog. Le storie che ascoltiamo sono ambientate prevalentemene a Milano. Non crediamo che questo sia un dato eminentemente fattuale. La natura di questa città la rende ad un tempo attrattiva e respingente, solidale e spietata – un ideale di vita ed un modello da cui fuggire. Le tante ragioni di chi la ama coincidono spesso con le ragioni di chi non ne può più.
E’ giusto quello che ho fatto io 8 anni fa, ben prima della pandemia: cedere in locazione la mia piccola azienda di servizi informatici ed avviare un’ attività totalmente differente (e con impegno flessibile) con la quale condividere i luoghi e le attività che amo, con gente che vuole solo divertirsi e, soprattutto, di certo non vuole rompere i coglioni, almeno in quel contesto!
Grandissimo Alessandro, è un gran piacere ritrovarti. Complimenti, hai fatto un’ottima scelta. In bocca al lupo! S.