Smartworking is the new “normalità”

smartworking is the new normal

Dopo il primo lockdown sono venute fuori tante storie personali, progetti collettivi, idee non estemporanee per una nuova “normalità”.

Vivere in reclusione domiciliare ha determinato un cambio nella gerarchia di priorità delle persone – forse anche nella stessa selezione delle priorità.

Molto di questo fermento aveva a che fare con lo Spazio e con il Tempo.
Lo Spazio non urbano: mare, campagna, montagna, borghi, paesini quindi anche con il Sud.
Il tempo, il proprio tempo, e non quello imposto dalle consuetudini.

Le costanti delle storie e testimonianze che continuiamo a registrare su Scelgo il Sud sono:

1 – la libertà – intesa come dominio autonomo del proprio dove e del proprio quando;

2 – lo smartworking – che non è telelavoro, non è “lavoro da casa” ma un’organizzazione del lavoro basata su obiettivi da raggiungere a prescindere dal quando e aprescindere dal dove.

SPAZIO E TEMPO

Spazio e Tempo sono diventate dimensioni dominanti nella gestione della eccezionale nuova normalità.
Si è capito quanto fosse possibile vivere la stessa vita ma con una ri-formulazione più libera, più personale, più autonoma nella gestione di queste due dimensioni.

Lo smartworking ha dato a molti la prova di come la libertà – dal cartellino, dagli orari di punta, dalla burocrazia aziendale – renda le persone più autonome, responsabili e protagoniste del proprio lavoro. C’è un ulteriore fattore. Per la prima volta i lavoratori dipendenti si sono visti riconosciuti come persone “adulte”, capaci di gestire i propri impegni, e non più come scolaretti da controllore.

Le persone hanno potuto sperimentare un modo di lavorare più efficiente – per il tempo del tragitto casa-lavoro risparmiato, per i tempi morti in ufficio impegnati in attività familiari o di svago.

Andarsi a fare una corsetta o una passeggiata col cane, tra una riunione e l’altra, quindi in “orario di ufficio”, non è una perdita di tempo, non è il comportamento di un fannullone. E’ un modo intelligente di diluire i momenti della vita, senza dover relegare alla fascia oraria 8-19 il lavoro e il resto a svago e famiglia, secondo un modello rigido e uguale per tutti.
E se è uguale per tutti, non va bene per tutti – visto che siamo tutti diversi e svolgiamo funzioni diverse.

Questo modello è un modello stupido – nel senso di contrario a “smart” –
inefficiente, improduttivo. E crediamo sia ormai incompatibile con la dimensione fisico-digitale nella quale è immersa la nostra vita.

RITORNO IN UFFICIO
Purtroppo, di questa esperienza non tutti hanno saputo fare tesoro.

Da più parti si è spinto per tornare alla “normalità” – quindi pendolari stipati, cartellino, pausa-pranzo.…

Aldilà della pandemia, e delle schiscette che la gente si porta in ufficio proprio per evitare i baretti del centro, il problema di questo “ritorno al passato” è che le persone non sono più quelle di prima.

La cara, vecchia “normalità” è nel frattempo diventata un modello inefficiente e, per molti, vessatorio – perché non fondato su valutazioni di merito, di produttività, soddisfazione, committment ma più sulla rassicurazione che l’incubo fosse finito.

A parte l’incubo che purtroppo non è affatto finito, per queste persone, il ritorno coatto in ufficio per accendere un pc e fare riunioni in remoto con i colleghi chiusi nell’ufficio accanto, significa un crollo della motivazione, e di conseguenza della produttività – per non dire del senso di appartenenza.

Sarebbe quindi interesse dei manager, pubblici e privati, non banalmente praticare il tele-lavoro, ma ri-organizzare la cultura del lavoro per valorizzare il contributo individuale e superare, finalmente, il modello rigido pensato per un mondo senza smartphone né Internet.

COSA C’ENTRA IL SUD?

Ci diciamo tra noi quanto lo smartworking sia un potenziale asset di sviluppo per tutta quella parte periferica di Italia – non solo al Sud – fatta da borghi, aree rurali, cittadine. Bene.

La moda estiva del “southworking” sembra però ormai superata. Molte persone sono tornate in città, hanno ripreso la modalità di prima anche se con qualche giorno di lavoro in remoto in più. Quindi si è interrotta l’utopia di vivere al mare e lavorare con la metropoli.

Quello che però non è venuto meno sono quei nuovi “bisogni primari” – Spazio, Tempo – che si sono imposti con il lockdown, e che la tecnologia ha reso possibile soddisfare.

Quindi resta l’opportunità per le tante aree non urbane d’Italia, quelle spopolate in quanto “non città”, di ripensarsi come attrattori di queste persone.

Ovviamente non si fa in un attimo, ma non si deve nemmeno partire da zero. Le esperienze e le buone pratiche non mancano.

Tra le varie esperienze che abbiamo raccontato su Scelgo il Sud c’è la storia di Amavido – una specie di Airbnb dei piccoli borghi, che mette in contatto host italiani con viaggiatori tedeschi.

La domanda, specie dopo il lockdown, indica chiaramente quale enorme potenziale ci sia per le tante aree marginali del nostro paese, al momento relegate a semplici mete di villeggiatura.

Perché queste opportunità possano essere sfruttate va da sé che serve sì Internet, ma una buona connessione pur necessaria non è sufficiente a rendere un’area marginale un luogo attraente in cui potersi insediare. Serve un contesto capace di offrire una dimensione immersiva per soggiorni che da brevi possono diventare lunghi e da soggiorni lunghi possano evolvere verso una vera e propria permanenza.

Non si tratta quindi di pensare solo ai meridionali di ritorno, ma di ragionare su un diverso modello di “southliving” – cioè un contesto alternativo alla dimensione urbana, che riguarda un bacino di persone molto più esteso e articolato.

Noi crediamo che questa opportunità sia reale e molto concreta, anche in virtù della convergenza di interessi per la valorizzazione dei terriotori e del tessuto abitativo non urbano con l’obiettivo non tanto di intercettare turisti o “cervelli in fuga” ma nuovi cittadini.

NOTA
Questo articolo è una elaborazione dell’intervento di Simona Bonfante al workshop Smartworking, Southworking, Southliving promosso dalla Fondazione Saccone al Digital Meet.

Lascia un commento