
Lo Smartworking è una battaglia culturale. Questa battaglia, a causa dell’emergenza Coronavirus (o grazie all’emergenza!) è stata vinta, quanto meno tra i lavoratori.
Le persone che già prima del coronavirus facevano lavori che avrebbero potuto fare in smartworking, hanno potuto sperimentare quanto inutilmente oneroso fosse l’obbligo di presenza in ufficio – quando il loro ufficio nei fatti è un pc.
Ed anche i meno aperti tra i loro capi non hanno potuto che registrare i miglioramenti nelle performance, nella produttività, nella motivazione. Ci sono però delle resistenze.
Le resistenze allo Smartworking riguardano il corporativismo aziendale, ma anche l’economia delle grandi città – dalle tavole calde ai grattacieli, all’indotto dei servizi, alla mobilità.
Se sempre meno persone sono costrette a correre la mattina a timbrare il cartellino, e se sempre più persone possono decidere in piena libertà di vivere anche molto lontano dalla città in cui ha sede l’azienda, è chiaro che il sistema economico generale cambia.
Lo smartworker non è che non spenda più, spende diversamente. Il gestore del baretto in centro ci perderà, ma l’azienda agricola o la locanda locale di un pesino remoto – anche del Sud – ci guadagnerà.
Southliving significa vivere fuori dalla grande città, ed è un’opportunità per le aree non urbane, al Nord come al Centro come al Sud. Svuotate di cervelli e persone, deprivate di economia vitale, grazie alla possibilità di lavorare in Smartworking le aree marginali possono ripopolarsi di nativi e cittadini adottati, innescare nuove economie, generare ricchezza ed alimentare il circolo virtuoso della produttività.
Il Sud non ha bisogno (non l’ha mai avuto) di assistenza. Ha bisogno di persone che ci vivano, spendano, facciano circolare idee e buone pratiche; che si prendano cura dei territori, che ne valorizzino le tradizioni, innovandole.
Click to Tweet
Il Sud, per poter attrarre smartworker, ha bisogno di digitale, di servizi e infrastrutture sostenibili per l’ambiente e l’economia, e ne ha bisogno ora.